Piove.
E fa freddo.
Che banalità letteraria. Adesso posso andare a fare compagnia al povero Snoopy. Anche se trascorrere il mio tempo in compagnia di un cane, per di più saccente, non è decisamente in cima alle mie aspettative. Sulla cuccia, per giunta, non ci sarebbe spazio. Già mi immagino, io e il cane, impegnati in una guerra senza esclusione di colpi. A contenderci il pappone del bambino pelato col maglione a righe.
Però piove, su questo non c’è alcun dubbio. Piove da tre giorni, ininterrottamente, e non accenna a smettere. La pioggia. La detesto. Puoi sentire l’acqua scorrere. Un aspetto negativo assai, se ti scappa. L’umidità, poi, ti entra nelle narici e ti porta quel misto impetuoso di terriccio smosso, erba, ma anche pisciate di cani e cicche spente.
Ancor più, però, detesto gli ombrelli. Non so se c’entra con stronzate come l’infanzia repressa, o che siamo tutti bambini in fondo, però la gente usa gli ombrelli in maniera decisamente assurda. Quando li tiene aperti, ti passa accanto e, il più delle volte, ti sbatte sul viso una delle loro asticciole. Il vero delirio però, comincia quando gli ombrelli sono chiusi. Questi arnesi diventano bastoni da passeggio, fucili, picche. Li fanno roteare, li tengono sotto braccio, li usano a mo’ di lancia, in una immaginaria giostra. Potrebbero cavarti un occhio con una facilità strepitosa. Senza contare poi, quando si è naturalmente compressi, come si è in stazione. Gli ombrelli tenuti ad altezza maroni sono i peggiori. Sono un monito presente e costante alla castità, agenti dell’Opus Dei, smilzi e meschini.
Odio gli ombrelli.
Per questo, vado in giro senza. Sono incapace a starvi sotto. Li dimentico nei posti più disparati. Ogni volta che ne apro uno, devo lottare con il vento e mi sembra di essere Mary Poppins. Tornata da Casablanca.
No, niente ombrelli.
Ed eccomi qui, al terzo giorno di pioggia, chiudere la mia auto e portarmi a passi lesti verso la stazione, il cappuccio ben tirato sulla testa. Sembro un Umpa-Lumpa, ma non importa. Cammino veloce, schivo le pozzanghere, ormai stracolme, faccio piccoli salti per guadare alcuni fiumiciattoli, di recente creazione. Sono quasi a metà strada. Bagnato, ma non troppo.
– Scusi?-
Una voce femminile.
Non dev’essere rivolta a me. Poi, dai, darmi del lei per giunta!
– Scusi?-
No, continua a ripetersi. Forse è davvero rivolta a me.
Una sagoma infagottata, ma al contempo elegante si affianca.
Ne studio il viso, anonimo, nel tentativo di associarlo ad un volto conosciuto.
Niente.
-Sì?-
-Va in giro così?-
-E come dovrei andare, mi scusi?-
-Vuole mettersi sotto il mio ombrello?-
Ci penso un attimo. Se dico di sì, devo stare attento a non inciampare. A rimanere a disagio per il tratto sufficiente all’arrivo in stazione. Se dico di no, però, passo per un pazzo furioso che ama bagnarsi come un imbecille.
D’altra parte forse è così.
Certo, però, non mi va di essere riconosciuto come pazzo. Poi, insomma, sono pazzie molto relative. Inoltre, mi colpisce la gentilezza di questa persona, decisamente poco falsa, non c’è che dire.
Con naturalezza.
-Okay.-
Automaticamente, mi avvicino e mi metto sotto l’ombrello. E’ abbastanza grande per non stare troppo vicini e mantenere le distanze. Attento a non inciampare, imbecille.
Il disagio è forte, però riesco a trattenermi.
-Grazie.-
-Si figuri.-
Parlare per monosillabi però non esprime il massimo del ringraziamento. Le devo una chiacchierata, forse.
Potrei parlare di migliaia di cose. Ma il banale, funziona sempre.
-Andrà avanti così per molto?- Bravissimo.
– Non so. Suppongo che prima o poi smetterà.- Giustamente.
Vabbè. Ci ho provato. Questo era il massimo del mio impegno.
Fortunatamente, siamo arrivati. Raggiungiamo la tettoia. Giù l’ombrello.
Mi discosto velocemente, non mi sforzo neanche di voltarmi.
-Grazie mille, davvero.
-Si figuri! Arrivederci.-
-Arrivederci.-
Guardo il tabellone degli annunci. Il treno, ovviamente è in ritardo di dieci minuti.
Decido che ho il tempo per un caffè.
Anche due.